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LA PALA D'ALTARE E' DEL GAROFALO?
 

           La pala lignea della Madonna e il Bambino con i Santi Faustino e Giovita
nella Pieve omonima in territorio di Rubiera

di Giorgio Notari*

Ho seguito il dibattito apertosi nei mesi scorsi sull’attribuzione del quadro dei santi protettori; senza pretesa di completezza e con l’augurio di nuove ricerche, propongo l’esito delle mie investigazioni che, partite trent’anni fa con la tesi di laurea sull’ordinamento giuridico della Pieve[1], hanno sempre tenuto aperte diverse piste di ricerca. Quella del quadro è una di queste.

  1. Una storia da riscrivere

La grande pala lignea ospitata nella Pieve dei Santi Faustino e Giovita di Rubiera è fatta risalire ad ignoto emiliano della prima metà del XVI secolo; raffigura i Santi Faustino e Giovita, protettori del paese, in contemplazione della Vergine e del Bambino. Il paesaggio non è solo di sfondo ai protagonisti: il fiume Secchia e il profilo della Pietra di Bismantova indicano l’attenzione dell’autore ai destinatari dell’opera e al sito ove si collocano gli astanti. Possiamo anche individuare il cosiddetto “salame di Felina”, una medioevale torre d'avvistamento nota ancora oggi nella montagna reggiana. L’importante cornice coeva ha subito numerose cadute nella pellicola pittorica, specie alla base; la cimasa è andata distrutta, ma da una riproduzione fotografica in bianco e nero del 1924[2] ricaviamo che doveva essere costituita da una sorta di scalinata rovesciata; gli spazi angolari sopra l’arco erano decorati da arabeschi floreali, ora perduti. La base della cornice, pur pregiudicata, lascia intravedere emblemi araldici non identificabili al momento. Anche sul sito internet sanfaustinese si rinviene tale riproduzione, dove è ben visibile una “memoria” secentesca, ora non più presente. La vulgata, fino ad ora indiscussa, vuole che, nel  1699, l’arciprete di San Faustino, Don Giovan Matteo Zanni, ultimo dei pievani in quanto nel 1704 si ebbe la “soppressione” della stessa, abbia acquistato dall’Ospitale il quadro, collocandolo poi nell’abside della Pieve e successivamente addossato, forse nel secolo scorso, al muro della navata destra dove ora si trova. Se così fosse la committenza della pala andrebbe ricercata nei Sacrati, patroni dell’Ospitale, istituzione laicale definita, nel primo libro amministrativo del 1445, come “Ospitale de Madona Sancta Maria dela Ca’ del ponte de Ribera[3] e potrebbe avere qualche possibilità l’attribuzione dell’opera al ferrarese Garofalo. Per la protezione offerta dalla pala collocata in zona absidale, il sottostante affresco della Madonna con Bambino d’impronta bizantina, secondo alcuni studiosi, si sarebbe preservato, giungendo abbastanza integro sino a noi.

2. L’attribuzione

Come detto sono il Malagola e il Saccani a divulgare la notizia dell’acquisto di Don Zanni dall’Ospitale e ad attribuire il dipinto al Garofalo (Benvenuto Tisi, detto il Garofalo) del quale è ben nota l’attività di affrescatore nella Chiesa dell’Ospitale a partire dal 1542[4].  Studi stilistici portano tuttavia ad escludere tale paternità, pur sempre riconoscendo l’alto valore dell’opera. In particolare Massimo Pirondini, nella pubblicazione sulla pittura reggiana del cinquecento, scrive: “occorrerà rammentare anche l’ignoto maestro che fu l’autore della Madonna con i Santi Faustino e Giovita oggi a San Faustino di Rubiera: artista quasi a metà fra Soncini e Patarazzi, ma ad entrambi superiore, come dimostra l’alto livello qualitativo di quest’opera, da collocarsi cronologicamente tra la fine del secondo e gli inizi del terzo decennio del secolo. Si tratta di un pittore con origini analoghe a quelle che furono di Nicolò (Patarazzi): lo dimostra il michelangiolismo di fondo nella vigoria delle figure, unito a spunti raffaelleschi, come avrebbe potuto raccogliere chi, magari al seguito dello Zacchetti a Piacenza (1517), avesse avuto agio di osservare da vicino la celebre Sacra conversazione nella chiesa di S. Sisto”[5]. Quanto sostenuto dallo studioso è condivisibile, solo che si abbia riguardo alla pala della “Madonna in trono con i Santi Stefano ed Eleucadio”, conservata nella Chiesa di S. Valentino di Castellarano (a.1517), questa sì opera di sicura mano del Garofalo[6] e la cui committenza è da ricondursi ai ferraresi marchesi Sacrati, feudatari di San Valentino e, del pari, patroni fin dal quattrocento dell’Ospitale rubierese. Anche la recente mostra ferrarese non annovera il nostro quadro.[7]  E’ stata forse la vicinanza, sotto diversi profili, tra i Sacrati, la famiglia marchionale estense che dominava la nostra zona e il Garofalo, ad attribuire il quadro, ora nella Pieve, al  pittore molto attivo nell’ambito ferrarese. Va tuttavia evidenziato come i libri amministrativi dell’Ospitale, esaminati da Orianna Baracchi[8], non riportino riferimenti alla committenza del quadro e al successivo pagamento dello stesso[9].  Allo stato, tra l’altro, non siamo in grado di spiegare il perché sia stato commissionato dall’Ospitale un quadro con l’iconografia di Faustino e Giovita rappresentati nella valle del Secchia: infatti se da un lato è vero che essi sono i titolari del plebanato che ha per centro la Pieve, dall’altro sono note e documentate le controversie tra l’Ospitale, geloso della propria autonomia, e le Autorità ecclesiastiche rappresentate dal Pievano e dal Vescovo locale, con sviluppi anche clamorosi[10].

3. Gli inventari

La lettura degli inventari e delle relazioni dei delegati vescovili in occasione delle Visite pastorali o le risposte dei Parroci nei momenti di passaggio delle consegne, offrono diversi spunti e ci fanno sapere che il quadro, era già presente nella Pieve, ben prima dell’asserito acquisto di don Zanni nel 1699. In un inventario riguardante la Pieve del 1623 si legge: “nella prospectiva del Choro, v’è l’Incona (sic) de’ Santi Faustino e  Giovita di bellissima pittura[11]. Anche un successivo inventario del 1647 conferma tale presenza. “in Choro un’Ancona di detti Santi[12]; annotazione che si ritrova anche in un inventario del 1657: “l’Ancona…fatta sul legno ove sono dipinti la Beata Vergine ed Puttino li SS. Titolari ed in cima all’Ancona vi è (illeggibile) con un ornamento intorno dipinto sopra il legno[13]. La visita pastorale voluta dal Vescovo Marliani nel 1663 riporta: “nel Choro di dietro una Ancona co(n) l’immagine de’ Santi titolari[14], annotazione ulteriormente confermata laddove si legge: “Ha il Choro dietro l’altar maggiore…con un Ancona nel mizzo (sic) con la effige de’ Santi titolari … Vergine con coro d’anggiolletti (sic) sopra[15]”. La nota è ripetuta nell’inventario redatto dall’arciprete Carlo Pizzaccheri nel 1672: “ Nel Choro l’Ancona con la B.V. e li Santi protettori Faustino e Giovitta (sic)”[16]. Un inventario del 1676 è conforme, poiché l’estensore scrive: “ ..l’Ancona nella quale sono l’immagine de Santi la Beata Vergine col Figliolo e cori d’Angioli[17]; dello stesso tenore un inventario del 1691: “l’Ancona nella quale sono le imagini (sic) de’ S(anti) Faustino e Giovita, la Beata Vergine con Figlio e cori d’Angeli[18]. Dunque don Zanni, al più, fece restaurare il quadro e la cornice, ma non acquistò dall’Ospitale il quadro, che era già da tempo nella chiesa di San Faustino.

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E’ un inventario del 1841 del prevosto don Antonio Beltrami che, forse, ci permette di scoprire l’origine dell’attribuzione al Garofalo. Così è scritto: “L’ancona di legno antica e colorata a marmo rosso (?) e nella cornice indorata. Il suo quadro è dipinto in (illeggibile) e rappresenta i titolari di questa chiesa e i S(anti) M(artiri) Faustino e Giovita e l’immagine della B. Vergine. Questo quadro si ritiene di molto valore perché si stima del Garrofolo (sic), come indica quel garrofano (sic) che è dipinto in fondo del quadro”.[19] L’attribuzione ottocentesca è frutto dunque di una superficiale lettura dell’opera, ove non è comunque rinvenibile un garofano, ma un prato dal quale emergono diversi fiori ed erbe[20]; il Malagola ha acceduto acriticamente al giudizio di don Beltrami, parroco peraltro molto attivo nel recupero della sua chiesa: lo svarione tuttavia, a cascata, è arrivato fino ai nostri giorni.

4. Alla ricerca del committente

Il centro di maggior potere fondiario del territorio, come noto, era la Pieve che arriva, nel 1501, ad avere, al tempo della commenda sotto il vescovo Giulio Cesare Cantelmo(i),  la disponibilità di oltre 844 biolche, in gran parte nel rubierese[21], segno di un controllo diffuso del territorio. Il processo di acquisizione parte prima dell’anno mille ed è legato all’evangelizzazione  sviluppatasi tra l’VIII e X secolo da parte dei benedettini che, con un piglio che possiamo definire imprenditoriale, si posero l’obiettivo della rinascita di questi luoghi[22], riordinandoli e rendendoli produttivi; poco lontano di qui sorse Nonantola, il grande cenobio dedicato a  S. Silvestro[23]. Nel tempo, la Pieve sanfaustinese diventa “matrice” o comunque referente, da un punto di vista ecclesiastico, di altri edifici di culto, come la chiesa dei Santi Biagio e Donnino “in castello”[24], quella di Sant’Agata e quella dei Santi Fabiano e Sebastiano a Fontana[25]. Anche queste chiese godono di “benefici”, terre in particolare,  che consentono il mantenimento dell’edificio e degli addetti al culto, preti e chierici. Avere dunque un quadro di livello che raffiguri i protettori è passaggio obbligato per chi è investito delle funzioni primaziali sulla Pieve e sul relativo territorio; forse è proprio il vescovo Cantelmo che commissiona l’opera, così suggellando la sua esistenza di funzionario al servizio del Papa e valorizzando l’acquisizione di una residenza - quella sanfaustinese – prestigiosa, anche se lontana dai centri del potere romano. Siamo all’inizio del cinquecento; l’autore del quadro, anche dopo la morte del vescovo Cantelmo (1503) procede nella sua opera e la consegna al nuovo investito… Entro il primo quarto del secolo, la pala è collocata e suscita ammirazione. Sono supposizioni ma, come vedremo, solo un uomo che aveva maturato una solida preparazione teologica, vissuto i prodromi delle divisioni che sarebbero poi sfociate nella riforma luterana e nel protestantesimo e dalla larga disponibilità economica, poteva suggerire e porre le basi per i “temi” di cui il quadro è portatore, oltre ad individuare un artista di assoluto livello.

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Particolare attenzione dobbiamo porre alla cornice del quadro: non si tratta di un banale e lezioso abbellimento, ma il manufatto amplifica quanto rappresentato nella pala, facendone parte integrante, con significati che arrivano a toccare le vette della teologia[26]. Un collegamento stilistico tra la nostra cornice e il Garofalo è dato dall’opera  di Lodovico Mazzolino (Ferrara, 1480 ca-1528 ca) detto Sacra Famiglia tra i Santi  Girolamo e Giovanni Battista ( 1518 ca), ora alla “Galleria Sabauda” di Torino; la cornice del quadro (100x94 cm) è certamente del Garofalo, e riprende diversi elementi stilistici dell‘ornato della cornice sanfaustinese[27]. Il quadro che ci occupa potrebbe, ma le indagini dovranno proseguire, essere nato proprio dalla collaborazione di diversi artisti di area ferrarese; allo stato attuale proporre nomi sarebbe azzardato.

5. Il culto dei due Santi

Per entrare ulteriormente nel dipinto è necessario indagare il culto di Faustino e Giovita, due Santi che hanno avuto “fortuna” soprattutto nell’alto medioevo e, in particolare, nel nord dell'Italia; basti solo ricordare che almeno una chiesa o una cappella è stata eretta in loro onore in ognuna delle diocesi dell’Emilia[28]. La leggenda risale al secolo IX e vuole che i due giovani, di nobile famiglia, una volta abbracciato il cristianesimo, non lo abbiano più abbandonato nonostante “una serie incredibile di torture”[29] subite un po’ in tutta Italia, ma in particolare a Brescia, Roma e Napoli, per poi essere decapitati nella città lombarda un 15 febbraio al tempo dell’imperatore Adriano. Il racconto non è attendibile, come già rilevò il P. Savio negli “Analecta Bollandiana” nel 1896 in occasione della pubblicazione della leggenda[30]. Anche se può sembrare irriverente va ricordato che Giovita era probabilmente una donna, in quanto i più antichi martirologi ne fanno seguire al nome l’attributo di “virginis[31], connotazione tutta femminile. La vicenda storica subì trasformazioni e adattamenti; in particolare va sottolineato il 15 febbraio, data ancora oggi legata alla memoria dei due martiri,  che  fu individuato ed enfatizzato per i particolari legami con il mondo romano. In tale occasione erano infatti festeggiati i “lupercali”, una ricorrenza agro-pastorale d’antica origine pagano/romana e dalla forte valenza iniziatica, fondata com’era sulla simbolica uccisione e rinascita di due giovani di nobile famiglia. Era il momento di passaggio in cui finiva l’inverno e si approssimava la primavera e con essa l’anno nuovo, secondo l’antica ripartizione in dieci mesi[32]. L’ignoto autore della pala sanfaustinese, pur a distanza di secoli,  dimostra di essere a conoscenza dei tratti salienti la leggenda, attribuendo ai due Santi il ruolo di bonificatori, materiali e spirituali, della terra rubierese. La leggenda fu infatti il veicolo di un importante intervento  in tutta la zona: prima con i Longobardi e poi con i Franchi, specie attraverso nobili famiglie che avevano giurisdizione sul territorio, i benedettini  ebbero una sorta di “mandato” diretto al recupero di queste terre e, in pari tempo, una notevole libertà e tutela nell’opera di catechizzazione di popolazioni refrattarie al messaggio cristiano. Va ricordato come un rappresentante di una di queste famiglie, Rodolfo figlio di Unroch, nel 944 (o 945) si vedrà confermati, a seguito dell’ormai famosa lite, i propri diritti  sulla “capella una que est ad onorem sancti Faustini martiris Cristi constructa in loco et fundo Erbaria cum casis et rebus domui cultiles quamque et massariciis...” nei confronti del vescovo reggiano Aribaldo[33]: siamo quindi di fronte a quella chiesa  che sarebbe poi diventata la pieve sanfaustinese. La leggenda deve il suo diffondersi ai monaci benedettini che ne fecero un uso, oggi diremmo “politico”, al fine di evangelizzare genti che, specie nelle campagne, si erano dimostrate restie, a recepire il messaggio cristiano, in quanto profondamente legate a culti pagani e a pratiche superstiziose[34].

7. Dentro il quadro

La Pieve rubierese, in ogni caso, può  vantare un’opera di grande valore e di sicuro interesse, non solo locale, come può ricavarsi dall’analisi del quadro. I due Santi, in ginocchio, non sono rappresentati in abiti militari, com’è dato riscontrare in una certa iconografia bresciana[35], ma in vesti clericali, come vuole il martirologio: Faustino, sacerdote, è rivestito di una casula di tipo ambrosiano, con il relativo manipolo, mentre Giovita ha la dalmatica, paramento caratteristico dei diaconi. Nulla dunque rimanda ad una difesa militare della zona ma, anzi, la maniera prescelta dall’autore è devozionale, seppure in una forma che definiremmo “attiva” e non di generico pietismo. Il sacerdote Faustino solleva verso la Madonna e il Bambino il calice, segno del sacrificio eucaristico; il diacono Giovita appoggia il  braccio sinistro al libro sacro, richiamo alla missione evangelizzatrice che i due avrebbero operato nel territorio. Il rimando ai passi del Vangelo ove Cristo invia i discepoli, a coppie, alla missione è evidente (Mt. 10,2; Mc. 6,8): l’andare a due a due è segno di comunione ed è l’avvio dell’evangelizzazione. E’ la vittoria su quel demone della divisione che non consente di cogliere il messaggio d’amore di Cristo; i due sono icona della Chiesa che prega: “Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Mt. 18, 20). La palma che i due protagonisti reggono e la pianeta rossa di Faustino sono cifre del martirio che i giovani ebbero a subire sotto l’imperatore Adriano nel II secolo d.C.; la decapitazione per la fede cristiana è ulteriormente resa dal tronco, reciso di fresco, al limitare del fiume. Il paramento indossato di Faustino si connota poi dal gallone centrale in cui sono raffigurati episodi e simboli della passione di Cristo. Il colore bianco-dorato della dalmatica di Giovita riafferma lo splendore del culto divino; ma il sacrifico per eccellenza è quello di Cristo, efficacemente richiamato dal calice, dal piede polilobato, che il pittore ha  posto al centro della composizione tra i Santi.  Si noti poi la corrispondenza fra il sacerdote Faustino, associato al calice, e il diacono Giovita, che porta il libro, nonché la posizione assegnata al primo rispetto al secondo: il calice è centrale e più elevato rispetto al libro sorretto dal diacono; è così riaffermata la dimensione gerarchica, sia nei ruoli che nelle fonti, della Chiesa cattolica. L’iconologia ci fa dunque collocare l’ignoto artista nel pieno del dibattito teologico sui Sacramenti e sulla Chiesa introdotto dalla riforma proprio all’inizio del ’500; il committente e l’autore sono schierati a  favore del culto eucaristico, di quello mariano e della centralità della Chiesa (“nulla salus sine ecclesia”) esaltandone e rappresentandone gli aspetti salienti.

* * *

Il paesaggio è rigoglioso; il pittore pare così sancire il positivo intervento in loco dei due Santi martiri che la tradizione orale  vuole transitati nella campagna rubierese, tanto da aprire un vero e proprio sentiero, come indica il terreno battuto fra le erbe. Il calice richiama il vino della mensa eucaristica e, nello stesso tempo, la fecondità della terra che era intensamente coltivata anche a vigneto e ricca di boschi, come ricorda fin dal X secolo un documento riguardante il confinante villaggio di Fontana[36]. I Santi sono letti e interpretati quali precursori e mediatori del cristiano, come suggerisce  l’albero ricoperto di edera che, sulla destra del quadro, collega la terra al cielo: essi vengono dalla medesima pianura di chi li guarda e il loro esempio è di sprone a coloro che vogliono raggiungere le vette della santità. Si deve notare come il pittore non abbia racchiuso i due effigiati in una stanza, ma all’aperto, in quella campagna dalla quale proviene la maggioranza degli astanti: un richiamo, certamente voluto, alla “vicinanza” tra lo status di fedele e la santità. Il tronco rinsecchito pare rimandare al fico, “l’albero del bene del male”, allusione al “primo peccato[37]; l’edera, che nel medioevo assurge ad emblema dell’immortalità dopo la morte, è un richiamo alla Resurrezione di Cristo, nuovo Adamo. Anche il sacrificio dei martiri e quello quotidiano di ogni credente trasformano la terra e la rendono ubertosa, un vero “Eden”. Due (in)flussi sembrano così incrociarsi e moltiplicare benefici effetti spirituali e materiali: il sangue effuso dai martiri e quello del corso d’acqua, il Secchia. Ma, al di sopra di tutto, anche della stessa ricchezza di doni e di grazie profusi dai Santi sulla terra, vi è la gioia della manifestazione celeste, resa, nella parte superiore del quadro delimitato da un semicerchio, dal tripudio d’angeli tra le nubi, ove il divino Bambino si mostra, additando la Madre (“Sede della Sapienza”), quale via per la visione ultima e  beatifica.

(Giugno 2009, riproduzione riservata)

* Giorgio Notari (52 anni), sposato, ha due figli. Vive a Rubiera ed esercita da oltre vent’anni la professione forense a Reggio Emilia. Giornalista pubblicista, ha al suo attivo diversi articoli e saggi su temi di carattere storico e relativi all’ambito formativo e famigliare. E’ presidente della Commissione per l’arte sacra e i beni culturali della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla.

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[1] G. Notari. La dinamica degli assetti giuridici tra alto e basso medioevo. Il caso della Pieve dei Ss. Faustino e Giovita di Rubiera, Università degli Studi di Modena, A.A. 1981/1982, relatore: Prof. Maurizio Fioravanti; alla ricerca è stato attributo, nel 1983, il premio Naborre Campanini dalla sezione reggiana della Deputazione di Storia Patria delle Antiche province modenesi.
[2] Carlo MALAGOLA, Memorie dell’antica Pieve dei Santi Faustino e Giovita presso Rubbiera, Modena, 1881, a pag. 25 scrive: “ Nel 1699 l’arciprete Gian Matteo Zanni, comperato il bellissimo quadro di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, rappresentante San Faustino e Giovita, che già decorava la chiesa dell’Ospitale presso Rubiera, posseduta dalla famigli dei Conti Sacrati, lo fece porre nel coro della sua Pieve, dove tuttodì si ammira, e sulla cornice curò che si scrivesse il seguente ricordo:

D.O.M.

GENITRICI MARIAE

SS. FAUSTINO ET IOVITAE

IO. MATTHEUS ZANNI

ARCHIPRESBITER

1699”.

Il Malagola tuttavia non supporta tale affermazione con riferimenti archivisti e la notizia è ripresa acriticamene anche dall’estensore, non indicato, ma sicuramente Giovanni Saccani, dell’opuscolo a stampa “Pel giubileo sacerdotale dell’Ill.mo e molto reverendo signore D. Angelo Chiesi Arciprete di Rubbiera”, Castelnovo di Sotto, 1894, 53; anche in: Giovanni SACCANI, La Pieve dei SS. Faustino e Giovita di Rubbiera (sic), Reggio Emilia, 1924, 29; la riproduzione fotografica del quadro si trova  a pag. 20.
[3] O. Baracchi – F. Milani, L’Ospitale di Rubiera. I Sacrati: Carità, Storia e Arte, Modena, Poligrafico Artioli, 1987, 121 e ss; il volume citato ha visto la luce anche grazie all’attività (sotterranea ma preziosa) di curatore di Riccardo Graziano Canovi (+2002), al quale sono anch’io riconoscente per le piste di ricerca fonitemi anche nell’orientare la presente ricerca.
[4]  Baracchi-Milani, op. cit., 144.
[5] M. Pirondini-E. Monducci, La pittura del cinquecento a Reggio Emilia, Milano, 1985, 35 e 37. 
[6] Ibidem, 20 e 164
[7] M. Lucco – T. Kustodieva, Garofalo. Pittore della Ferrara estense”, Catalogo della Mostra, 2008
[8]  Baracchi-Milani, op. cit., 144 e ss.
[9] Se si vuole mantenere aperta la possibilità che il quadro sia stato commissionato per l’Ospitale, può essere avanzata l’ipotesi che, una volta distrutto nel 1523 per ragioni difensive il primitivo Ospitale, che sorgeva a ridosso delle mura sul lato verso Modena, il dipinto sia stato trasportato nel nuovo complesso, seppure in una sede secondaria, non potendo la Chiesa annessa ospitare l’opera, come può desumersi dall’impianto del tempio. Infatti, come già detto, il Garofalo dal 1542 operò in affresco nella Chiesa dell’Ospitale; al pittore ferrarese fu chiesto, tra l’altro, di decorare, sempre ad affresco, sul muro “incirca l’ancona” una “Natività della Beata Maria Vergine” (Baracchi-Milani, op. cit., ); di tale opera non rimane traccia e comunque non ve ne sarebbe stata la necessità se il quadro in esame fosse stato collocato nella Chiesa. Ulteriori e evidenti ragioni di dedicazione ne avrebbero sconsigliato il riuso.
[10] Ad un Visitatore del vescovo reggiano fu anche impedito di entrare nell’Ospitale (Archivio Curia vescovile Reggio Emilia, Parrocchie, filza 96)
[11] Archivio Curia Vescovile Reggio Emilia, Parrocchie, San Faustino, Filza 96,
[12] Ibidem
[13] Archivio Curia Vescovile, Visite Pastorali, Filza 10
[14]Archivio Curia Vescovile Reggio Emilia, Parrocchie, San Faustino, Filza 96
[15] Ibidem
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] Ibidem
[19] Ibidem.
[20] Cfr B. Besler, L’erbario delle quattro stagioni, Milano, 1998
[21] ASMo, Giurisdizione Sovrana, f. 21, Casa e Stato, Documenti spettanti a principi estensi: il 16 novembre 1501, Mons. Giulio Cesare Cantelmo(i), dopo aver ottenuto (una vera e propria compravendita)  la commenda della Pieve, già del Card. Ippolito d’Este, fa redigere un minuzioso inventario dei beni mobili ed immobili. Del Cantelmo, arcivescovo titolare di Nicea in partibus e che concluse in San Faustino, nel 1503, la sua carriera di ecclesiastico al servizio della S. Sede, e sul quale sono in corso ulteriori ricerche da parte di chi scrive, la Pieve rubierese conserva la lapide funeraria (scalpellata ai tempi della rivoluzione francese nei simboli araldici) posta sul lato nord dell’edificio, testimonianza della tumulazione. Circa l’estensione dei possedimenti dell’ente ecclesiastico va ricordato che la biolca reggiana è pari a 2922,503 mq. (per le altre misure e corrispondenze cfr G. Orlandi, Le campagne modenesi fra rivoluzione e restaurazione, Modena, 1967, app.  XV-XVI).
[22] Ancora nei secoli XIII e XIV l’Arciprete della Pieve, una volta eletto, doveva ricevere l’approvazione dall’Abate del monastero benedettino di S. Salvatore di Pavia (cfr ASMi, Fondo di religione, Erbaria); il più antico documento riguardate la Pieve è del 945 (o 944) in cui i Vescovo di Reggio Aribaldo è costretto, in sede giudiziaria, a riconoscere i diritti sulla “capella una, que est ad onorem santi Faustini martiris Cristi constructa  in loco et fundo Erbaria cum casis e rebus domui cultiles quamque et massaricis seu et omnibus rebus territoriis atque familiis, vel mobilibus, sive et omnibus redicionibus cocumque ordine ad  ipsam ecclesiam pertinentibus vel aspicientibus…” di Rodolfo, nobile di stirpe supponide. Al vescovo rimangono i diritti di natura ecclesistica (L. A. Muratori ritrovò il documento tra quelli spettanti al monastero benedettino di S. Salvatore di Pavia e pubblicò l’atto nelle A.I.M.AE.,  t. I, 465 e ss; tale documento è rinvenibile anche in Manaresi, I Placiti del Regnum Italiae, 547-550 ).
[23] G. Tiraboschi, Storia dell’Augusta Badia di San Silvestro di Nonantola, Modena, 1784.
[24] Un’investitura della Chiesa Cattedrale di Modena  a favore di Rodolfo da Panzano è stipulata il 6 ottobre 1180 in “Hirberie intra ecclesiam” (E.P.Vicini, Regestum della Chiesa cattedrale di Modena, 128); quindi la chiesa in Rubiera era già eretta ma non ancora sottoposta a San Faustino ma dipendente dal Capitolo della Cattedrale modenese.
[25] La prima menzione è del 1186 ove il papa Urbano II riconosce l’appartenenza di diverse corti e chiese al Monastero di S. Salvatore di Pavia; tra queste  “curtis Herberiae et Plebem Sancti Faustini cum omnibus ad ipsam medietatem et plebem pertinentibus in cuius Parochia et Territorio sunt Cappelle tres, videlicet Sancti Michaelis, Sancti Fabiani et Sancte Agathae” (C. Margarinus, Bullarium Casinense, t. II, Tuderti, MDCLXX, pp. 209-210);  come si noterà non vi è menzione di S. Donnino in castello. La cappella di S. Michele (Canuto) è scomparsa (Saccani, La Pieve, op.cit., p. 22).
[26] Sull’importanza della cornice nei dipinti a carattere sacro, cfr: T. Ghirelli, La Notte del Correggio: l’incarnazione è luce e pervade il mondo, in AA. VV., “L’ancona lingea de “la Notte” del Correggio”, Reggio Emilia, 2008, 7-8. Anche la cornice sanfaustinese, per diversi aspetti, non è un limite alla raffigurazione pittorica, ma indica un espandersi del messaggio sotteso al quadro, con quella proliferazione di girali, fiori, frutti che stanno a significare la vitalità incessante del messaggio evangelico. 
[27] C.E. Spantigati e al., La Galleria Sabauda di Torino. Opere scelte, Torino, 2006,  25.
[28] A Piacenza è segnalata la cappella di S. Faustino “de Tuna”; a Fidenza vi è una chiesa in città; nel parmense è dedicata ai due Santi la pieve di Sorbolo, nei pressi del fiume Enza;  a Modena  tre cappelle, una in città e una rispettivamente a Baggiovara e a Magreta; nel bolognese viene eretta la capella di S. Faustino “de Montelugno” nei pressi di Monteveglio (cfr A. Mercati-E. Nasalli Rocca- P. Sella, Rationes decimarum Italiae nei secoli XIII e XIV. Aemilia, Città del Vaticano, 1933, 441 e ss). A Reggio, oltre a quelle nel rubierese, per alcuni storici vi è traccia di una chiesa dedicata a S. Faustino in città fin dall’ 857 (cfr P. Torelli, Le carte degli archivi reggiani, Reggio Emilia, 1921), A favore della identità tra la capella dell’857 e quella di Rubiera si schierano G. Badini-F.Milani, I libri parrocchiali della Diocesi di Reggio Emilia, Bologna, 1973, 55; contra: G. Saccani - N. Artioli, Delle antiche chiese reggiane, Reggio Emilia, 1976, 303 e 305. Vi era poi una chiesa dedicata a san Faustino  “propre Rovariorum” (cfr Muratori, A.I.M.AE., tomo, II, 370) appartenente ai canonici di Canossa, la cui individuazione geografica è incerta.
[29] Bibliotheca sanctorum, 1964, vol. V, ad vocem, 483 e ss.
[30] F. Savio, La Lègende de SS. Faustine e Jovite, in Analecta Bollandiana, Bruxelles, 1896, tomo XV.
[31]  Bibliotheca sanctorum, op. cit., 484.
[32] G. Dumezil, La religione romana arcaica, Milano, 1977, 306 e ss; A. Carandini e al., La Casa di Augusto. Dai “lupercalia”al Natale, Roma-Bari, 2008; A. Carandini (ed), La leggenda di Roma, Vol. I, Fondazione Lorenzo Valla, 2006.
[33] L.A. Muratori, A.I.M.AE., tomo I, coll. 463 e ss. Significativo che questo documento, un placito, sia stato rinvenuto dal Muratori nell’archivio del monastero benedettino di S. Salvatore di Pavia. Ancora nel XIII secolo, come già segnalato, la nomina dell’arciprete di san Faustino doveva essere ratificata dall’abate di S. Salvatore di Pavia). Inoltre molti dei documenti contenuti nel Bullario casinense, Tauderti, MDCLXX,  raccolta di importanti atti pubblici, imperiali e papali, indicano la Pieve di San Faustino di Rubiera tra i beni dei benedettini.
[34] cfr G. Picasso, Campagna e contadini nella legislazione della Chiesa fino a Graziano, in V. Fumagalli-G. Rossetti,  Medioevo Rurale, Sulle tracce della civiltà contadina, Il Mulino, Bologna, 1980.
[35] E. Mainetti Gambera, Ritorno alla primitiva raffigurazione dei santi martiri Faustino e Giovita, in Lunedi del Giornale di Brescia, 14.2.77.
[36] B. Bacchini, Dell’istoria del Monastero di S. Benedetto di Polirone nello stato di Mantova, in Modona, MDCXCVI, 12-15 dei docc. ove si legge a proposito di Fontana: “casis, massariciis seu vineis et silvis cum arei ubi extant seu pratis et terris arabilis quae habere visum est in locum”.
[37] S. Settis, La “Tempesta” interpretata, Einaudi, Torino, 2005, 25

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13 Maggio 2009 - Seguito de "Sulla pala d'altare di San Faustino". Quando si scrive “Allo stato attuale delle conoscenze, questo non sarebbe corretto”, non si vuole “chiudere ogni possibilità di dialogo”. Anzi, si invitano quanti sono interessati a controllare quello che è stato scritto e ad aggiungere (in modo documentato, così da permettere altrettanto) idee e documenti nuovi. Non sono elencate altre voci discordanti semplicemente perché non so se ne esistano. Sono state lette bene le pagine 25 e 26 del libro di Malagola? Non mi sembra, in quanto il “che”, alla fine della nota “1” è stato letto con un accento che non c’è, quindi quel “che” non è un “perché”. Inoltre il Romoli, trattando delle vicende dell’Ospitale di Rubiera, doveva scrivere della pala almeno fino al 1600. Se si ha la pazienza di leggere il “Regesto documentario” da pag. 187 a pag. 199 del catalogo della mostra “Garofalo. Pittore della Ferrara Estense” (a cura di Tatiana Kustodieva e Mauro Lucco, Skira editore, Milano, 2008), tra tutti i documenti e libri consultati, non si trova nulla che colleghi la nostra pala al Garofalo. E’ documentata la pala con la Madonna con Bambino e i Santi Eleucadio e Stefano, conservata nella Pieve di San Valentino di Castellarano (vedi anche Il prezioso dipinto del ‘500 a San Valentino, di Danilo Morini e Giovanni Pio Palazzi, Pagg. 45-49 in Reggio Storia n. 119, anno XXX, n. 2, aprile – giugno 2008) e la sua attività all’Ospitale di Rubiera. Siccome non si è trovato fino ad ora nessun documento coevo alla pala, non rimane che chiedere il parere ai critici dell’arte. Vittorio Sgarbi visitò la nostra Pieve nel febbraio del 2000 e osservando la pala non la attribuì al Garofalo ma ad un ignoto pittore che utilizzava gli stessi stilemi del periodo. A questa visita era presente don Francesco. Nell’aprile dell’anno scorso era mia intenzione mettermi in contatto con i curatori della mostra sul Garofalo che si era tenuta a Ferrara dal 05 aprile al 20 luglio e sottoporre loro la pala di San Faustino, ne avevo parlato anche con Don Francesco, ma gravi motivi famigliari me lo hanno impedito. In merito alla “disinvoltura” con cui si attribuiscono i nomi di Faustino e Giovita ai due personaggi maschili rappresentati nella pala, è sufficiente conoscere quanto scrive l’Enciclopedia Cattolica, (volume V, pag. 1063), aver letto le leggende sul loro martirio, il ruolo che ha avuto il loro culto nella pratica religiosa e spirituale benedettina, aver visitato la Basilica di Brescia, aver visto il quadro che è conservato sopra la porta della sagrestia del complesso della “Santa Gerusalemme” di Bologna, la tela conservata (sic!) nell’oratorio della “Madonna della Vita” a San Faustino e possedere i semplici rudimenti su gli “elementi generici, specifici di gruppi di santi e peculiari” dell’iconografia. L’iconografia consente di interpretare quello che l’artista della pala di San Faustino voleva e vuole trasmettere a tutti coloro che si fermano davanti ad essa per meditare o pregare, siano essi ricchi o poveri, istruiti o illetterati. E’ questa la cosa più importante della pala, non se è stata dipinta da Benvenuto Tisi o da Domenico Becco.

San Martino in Rio, 13.05.2009                           Cristian Ruozzi

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10 Maggio 2009 (Il Malagola ed il Garofalo.) - Riferimento al documento del  10 aprile 2009 (sulla mancata paternità alla Pala del Garofalo). Citare un coro di personaggi orientati nella stessa direzione  per arrivare a  concludere di autore ignoto la Pala in argomento, potrebbe sembrare un modo piuttosto riduttivo, tendente a chiudere  ogni possibilità di dialogo. Inoltre, definire il Malagola dubbioso della propria tesi al punto di chiedere aiuto al Romoli , risulta essere una affermazione eccessiva e del tutto gratuita. Il Malagola, unico citato per aver scritto e sostenuto l’origine e la paternità della Pala in questione, riferendosi al Romoli ne esalta gli studi e le richerche che questo Signore ebbe a fare su Rubiera e quindi sulla corte Ospitale, ribadendo poi la propria tesi dicendo che il Romoli non avrebbe potuto parlare della  Pala in discussione  poiché,  in  quel  tempo,  la stessa Pala si trovava già nella chiesa di S.Faustino. Il Malagola è sempre stato molto interessato alla chiesa di S.Faustino,  al punto che dobbiamo a lui se l’attuale facciata non venne deturpata come prevedeva il progetto di ristrutturazione da parte di Don Beltrami il quale, facendosi forte di fare i lavori a proprie spese, aveva incaricato l’architetto Costa a portare tutto il manufatto, interno ed esterno, ad uno stile moderno. Quindi, è da ritenere che, per le ricerche e le frequentazioni, il Malagola non sia poi così lontano dalla realtà, come si vorrebbe far credere ( basta citare l’ing Faccioli sovraintendente alle belle arti in Bologna che poi curò la ristrutturazione della facciata della chiesa di S.Faustino, come ora si può ammirare, e casa Prampolini dove potè attingere informazioni circa la storia della chiesa in argomento, avendo questi avuto un parroco proprio in S.Faustino tra il 1700 ed il 1800). Ad ogni modo, alla luce di quanto detto, ciascuno è libero di pensare come meglio crede ma ritengo non accettabile utilizzare il termine “Ignoto” per dire  “Fine” al dibattito. Una curiosità che richiederebbe un chiarimento: coloro che definiscono di autore ignoto la Pala nella chiesa di S. Faustino, come fanno poi a dire , con tanta disinvoltura,  che i personaggi di questa Pala sono i Santi Faustino e Giovita? Ed è qui che  la tesi del Malagola ha un senso in quanto, al tempo in cui il Garofalo operava nella Corte Ospitale chiamato dai Sacrati, S. Faustino era molto importante infatti, l’arcipretura era in S.Faustino  fino a Don Zanni quindi,  a Rubiera. A questo punto non sarebbe poi del tutto inverosimile pensare che i Sacrati abbiano ordinato una Pala in onore dei Santi Patroni della chiesa allora dominante. (L.P.)

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10 aprile 2009 (sulla mancata paternità alla Pala del Garofalo) - Antonio Ferraboschi mi ha informato della sorpresa destata per non aver attribuito al pittore Benvenuto Tisi (1481?- 1559) la “pala d’altare, raffigurante i SS. Faustino e Giovita (I metà del secolo XVI)”, nel pieghevole della Pieve. Allo stato attuale delle conoscenze, questo non sarebbe stato corretto. Gli autori che attribuiscono al “Garofalo” la “Madonna con i Santi Faustino e Giovita” sono Carlo Malagola (1855-1910) e mons. Giovanni Saccani (1852-1930). Bisognerebbe verificare se mons. Pietro Ferraboschi (1916-2001) ne abbia scritto in Le origini del “Fundus Erbaria”. Rinvenuta una villa romana, in La Libertà del 02.05.1954 o in altri scritti. Malagola scrive che “… il bellissimo quadro di Benvenuto Tisi, detto il Garofalo, rappresentante S. Faustino e Giovita, che aveva già decorato la chiesa dell’Ospitale presso Rubiera, ...” era stato acquistato da “l’arciprete Gian Matteo Zanni” senza citare la fonte, seppur avesse avuto la possibilità di accedere alla documentazione conservata nell’archivio parrocchiale da cui aveva attinto per la stesura del libro. Anzi, non sembra essere del tutto convinto a tal punto che nella nota “1” scrive che la sua fonte per le notizie relative al Garofalo e alla sua attività nella chiesa dell’Ospitale, è il manoscritto di Rodolfo Romoli  (consegnato successivamente al comune di Rubiera il 28.02.1888) e nelle “memorie del Romoli non è indicato il quadro sopra menzionato, che fin dal XVII secolo trovavasi a San Faustino”. (Carlo Malagola, Memorie dell’antica pieve di S. Faustino e Giovita presso Rubiera, stampato da Vincenzo e nipoti, Modena, 1881, pagine 25 e 26). Saccani si limita a riportare quanto scritto dal Malagola. (Giovanni Saccani, La pieve dei SS. Faustino e Giovita di Rubbiera. Note storiche. Cooperativa fra Lavoranti Tipografi, Reggio Emilia, 1924, pag. 19). Massimo Pirondini attribuisce ad “ignoto emiliano della prima metà del XVI secolo, la Madonna con i Santi Faustino e Giovita” (pag. 37), specificando che “l’ignoto maestro (era un) artista quasi a metà strada fra Soncini e Patarazzi, ma ad entrambi superiore, come dimostra l’alto livello qualitativo di quest’opera” (pag. 35). (Massimo Pirondini ed Elio Monducci, La pittura del Cinquecento a Reggio Emilia, Federico Motta editore, Milano, 1985). Orianna Baracchi nel capitolo Inediti di costume, arte e storia, nel tentativo di individuare l’autore di una pala d’altare conservata nella Chiesa dell’Ospitale, scrive: “E’ certo comunque che non si trattava d’una ancona del Garofalo sia perché un’opera giovanile dello stesso pittore non poteva definirsi, nel 1543, ancona vecchia, sia perché è assurdo pensare che un modesto pittore-restauratore come Rinaldo Mazzoli osasse restaurare un quadro del notissimo Benvenuto e, per di più, in sua presenza, considerato che proprio nello stesso periodo il Garofalo era attivo all’Ospedale” (pag. 146). E’ interessante constatare, nel proseguo del saggio, la carenza di documenti dal 1647 al 1706 che citano quella antica ancona che era conservata nella chiesa. Questo periodo interessa per la storia della Pieve di San Faustino e per la pala d’altare rappresentante la Madonna con i Santi Faustino e Giovita, ma Orianna Baracchi ritiene di ritrovare l’antica ancona presente nella chiesa dell’Ospitale nel 1758 (pag. 147). Le fonti da lei utilizzate sono citate a pag. 184. (Orianna Baracchi e Francesco Milani L’ospitale di Rubiera. I Sacrati: Carità, Storia e Arte, Artioli Editore, Modena, 1987).Nel 1977 la pala e l’ancona vengono restaurate. Del restauro se ne occupano la ditta Zamboni e Melloni per la “parte pittorica” e il prof. Renato Boni per la “parte lignea”. Zamboni e Melloni scrivono che “La tavola presentava varie e vaste ridipinture che debordavano ampiamente sulla stesura pittorica originaria. (…) La rimozione delle ridipinture è stata effettuata con solventi vaporizzanti; l’eliminazione delle stuccature (anch’esse debordanti sul colore originario) e delle ridipinture antiche (ottocentesche), ha richiesto l’ausilio del bisturi”. Il prof. Boni scrive che il restauro dell’ancona “ha messo in luce una meravigliosa decorazione rinascimentale a tempera, sicuramente eseguita tra il 1510 e il 1520 come risulta dalla data inserita nell’ancona e purtroppo mancante delle ultime lettere” (I tesori della Pieve (n. 4). Pala con ancona, dei nostri protettori. Descrizione del restauro 1977. In “La Pieve” n. 7, marzo 1978, pag. 2). In merito al restauro del 1977, mi chiedo se il braccio destro della Madonna, fosse originariamente dipinto come lo vediamo,  perché appare molto innaturale, plastico, mentre risulterebbe appropriato se si considerasse con il colore della manica del vestito. Infine, Giorgio Notari, nell’articolo Torna a splendere la pala della Madonna con Bambino e i Santi Faustino e Giovita, riprendendo il libro di Mussini e Moducci, ritiene che non si possa attribuire il dipinto al Garofalo (Mille Anni, n. 4, Anno XIV – 2001, pag. 11). Ho considerato tutto questo per arrivare a scrivere sulla bozza “Una pala d’altare, raffigurante i SS. Faustino e Giovita di autore ignoto (I metà sec. XVI)”, poi pubblicato sul pieghevole “Una pala d’altare, raffigurante i SS. Faustino e Giovita (I metà del sec. XVI)”.

(San Martino in Rio, 08.04.2009)                                      Cristian Ruozzi

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6 aprile 2009 (sulla scritta nella cornice della Pala del Garofalo) - Effettivamente, alcune lettere rimaste sull'attuale cornice della "Pala" in argomento messe a confronto con la scritta della foto in bianco/nero,  confermano l'autenticità e la provenienza della stessa Pala. Considerazioni: Alla luce di quanto detto, poichè quel tratto di cornice risulterebbe  essere originale,   perchè nei vari restauri non si è ristrutturata anche  la scritta che fece mettere  l'acquirente Don Zanni, lasciando invece al tempo cancellarne la memoria? A questo punto, non era forse meglio togliere  completamente questa scritta? Può darsi che l'intenzione fosse proprio quest'ultima. Se così fosse, l'intervento non fu proprio dei migliori per non pensare che in futuro qualche curioso, assistito dal progresso tecnologico, avrebbe scoperto quelle poche tracce, sufficienti  per ricondurre al  testo originale. (LP)

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25 febbraio 2009 (sul quadro del Garofalo) - Pensandoci bene, su quanto ha detto DFA ci può essere del vero. Infatti, quando don Zanni acquistò il quadro del Garofalo, alla fine del 1600, detto quadro aveva già un' età di circa 200 anni per cui è plausibile che fosse malmesso con la cornice. Quindi, è probabile che don Zanni l'abbia fatto restaurare dandogli , nel contempo, un tocco personale per passare alla storia come il benefattore di tale importante acquisto. Lo dimostra il fatto di aver inciso sulla cornice quella dicitura ovale riportata anche dal Malagola (D.O.M - GENITRICI MARIAE - SS. FAUSTINO ET IOVITAE - IO, MATTHAEUS ZANNI - ARCHIPRESBITER - 1699), che non ha niente a che fare con l'originale. Se ciò è vero, come lo dimostra la fotografia in bianco/nero, ben hanno fatto successivamente a riportare la cornice all'originale e, ciò che di meritevole ha fatto don Zanni deve rimanere descritto nell'archivio parrocchiale. Si potrebbe , ora,  ritenere che l'attuale versione, nonostante le varie ristrutturazioni subite, sia quella che si avvicina di più all'originale rispetto a quella che si vede nella foto bianco/nera. (LP)

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23 febbraio 2009 (sul quadro del Garofalo) - Non so di preciso,
perchè non ero presente quando è stato fatto il primo restauro. Io l'ho sempre visto come è adesso. Provo soltanto a ipotizzare che:  1) - La cornice lignea è la stessa. 2) - E' cambiata la decorazione perchè quando si fa' un restauro si tolgono tutti gli interventi di tinteggio o decorazione per recuperare l'originale. Così come è stato fatto agli affreschi di S. Agata. Ai quadri restaurati di Fontana e anche a quelli di Cerrè Marabino solo per citarne alcuni. (DFA)

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17 Novembre 2008 (sul quadro del Garofalo) - L'insieme dei
dipinti del Garofalo che ho potuto visionare e che tra l'altro sono bellissimi, li ho osservati con attenzione e secondo me, guardando lo sfondo di quasi tutti i dipinti, ho trovato una linea comune con il dipinto di S. Faustino. Perciò direi che il dipinto di S. Faustino è vicinissimo allo stile del Garofalo. Questo il mio modesto e semplice parere. (TP)

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20 ottobre 2008 (sul quadro del Garofalo) - Navigando per caso sul sito di San Faustino ho notato che, nella sintesi della storia sulla chiesa in argomento, è stata messa in discussione la paternità riguardante il quadro attribuito al Garofalo. Se esiste una verità diversa da quel che risulta dagli scritti del prof. Malagola, lo si dica chiaramente e si pubblichi il o i documenti. In caso contrario e fino a nuovi riscontri rimangono valide le attribuzioni fatte al quadro dal prof. Malagola. (LP)
 

by ferant 2008 parrocchia di San Faustino:     tel: 0522 628932          e_mailparrocchiasanfaustino@virgilio.it